Saggio introduttivo di Lorenzo Terzi
Partito con l’intento di scrivere una storia di Napoli, e accintosi a redigere il “capitolo-campione” delle origini, Angelo Manna si lasciò prendere la mano dalle suggestioni legate alle vicende più remote del capoluogo campano e ai miti e alle leggende a esse congiunte. Sicché dalla sua penna venne fuori tutt’altro: un’indagine, condotta con metodo storico antropologico, su Partenope, le Sirene e Ulisse spiegati in maniera volutamente provocatoria, in contrasto con le interpretazioni ufficiali ammannite a generazioni e generazioni di studenti dai “professoloni” (composto di “professoroni” più “soloni”) e dai loro replicanti. La stessa prosa impiegata da Manna in quest’opera postuma – volutamente “barocca”, urtante, antipatica perfino – risponde all’esigenza di stupire il lettore, come vuole la più genuina poetica secentista. Il volume, tuttavia, non somiglia affatto a uno di quei pamphlet il cui argomento storico – mitologico serve all’autore da pretesto per parlare d’altro e compiacersi dell’umorismo e della vivacità della sua prosa. Partenope, le Sirene, Ulisse è un vero e proprio saggio di storia, di archeologia, di mitografia, fondato su un meditato e appassionato lavoro di analisi, confronto e valutazione di numerosissime fonti e ricerche, anche molto recenti. Il libro, nella redazione che ci è pervenuta – e che è da considerarsi definitiva – si compone di una Premessa e di sedici capitoli, raggruppabili in tre parti. I primi sette, infatti sono dedicati alla ricostruzione dei convulsi e non di rado drammatici avvenimenti che accompagnarono la nascita di Neapolis. Nei capitoli dall’ottavo al dodicesimo Manna si impegna a sfatare il mito delle Sirene, rivelandone l’origine e svelandone il mistero; gli ultimi quattro, invece, mostrano il vero volto dell’eroe omerico per antonomasia, di Odisseo, il quale non è affatto, secondo l’autore, l’uomo spinto a viaggiare dall’inesausta sete di “virtute e canoscenza” caro a certa pubblicistica medievale (memorabile il grido: “Preti! Ridateci il vero Ulisse!”). Siffatta triplice partizione, tuttavia, non deve indurre in inganno: si tratta di una divisione puramente ideale, che nulla toglie alla complessa organicità dell’opera. Il discorso storico su Partenope è inseparabile da quello mitologico riguardante le Sirene, e quest’ultimo attinge e dona significatività al personaggio e al mito di Odisseo, in un denso e appassionante gioco di rimandi e di reciproche chiarificazioni.
Non bisogna, dunque, perdere neanche una battuta nella lettura del libro scritto, sette anni fa, dal compianto meridionalista napoletano. Occorre semmai armarsi di pazienza e rinfrescare qualche cognizione di base per comprendere appieno la portata della sua riflessione e del suo lavoro critico. Non sarà pertanto inutile tenere presente, a mo’ d’inquadramento generale, la successione temporale delle fasi della storia cretese e della protostoria del continente ellenico, come è sinteticamente ed efficacemente delineata da Hermann Bengtson nel suo celebre manuale di storia greca. Per quanto riguarda Creta, la cronologia di base cui riferirsi coincide con quella proposta dal grande archeologo inglese sir Arthur Evans, il quale distingue tre epoche, a loro volta divise in tre periodi ciascuna: Antico Minoico (I – II – III), Medio Minoico (I – II – III) e Tardo Minoico (I – II – III). L’inizio dell’Età del Bronzo – coincidente con l’Antico Minoico I – va situato intorno al 2400 a. C.; l’intero Antico Minoico comprende, invece, un periodo di quattro secoli, dal 2400 al 2000 a. C. . L’inizio dell’età del Bronzo nell’Egeo ha luogo con il Medio Minoico, la cui seconda e terza fase si collocano, rispettivamente, intorno al 1800 e nel XVII secolo a. C. . Il tardo Minoico comincia invece verso la metà del XVI secolo a. C. . La sua seconda fase ha principio intorno al 1450 a. C.; poco più tardi del 1400 a. C., infine, la grande civiltà cretese tramonta definitivamente. Analoga tripartizione è stata proposta da A. J. B. Wace e C. W. Blegen per la protostoria dell’Ellade, ovvero del continente greco: la maggioranza degli studiosi, quindi, distingue oggi tra Antico Elladico (2500 – 2000 a. C.), Medio Elladico (fino al 1550 a. C) e Tardo Elladico (all’incirca dal 1550 al 1150 a. C.).
Al Medio Elladico deve farsi risalire l’arrivo in Grecia di popolazioni indoeuropee, in concomitanza con migrazioni di popoli nella zona del Medio Danubio e dei Carpazi. Gli abitanti del bassopiano ungherese vennero spinti verso sud da altre genti che, provenendo da nord o da nord – est, occuparono il loro territorio. Secondo Bengtson gli emigranti appartenevano a quel ceppo indoeuropeo la cui origine va ricercata nella regione compresa tra il Baltico e l’Asia interna. La marcia verso l’Ellade comportò per loro il passaggio dalla sedentarietà al nomadismo; e, poiché la vita errabonda rendeva necessaria la presenza di capi militari esperti e capaci, all’interno delle loro società si venne consolidando un potere di tipo principesco. La religione di queste genti presentava una commistione di elementi animistici e feticistici con altri tipici della religione di natura; essa andò a costituire il primo nucleo del successivo culto greco. Nel dio dei cieli – venerato in epoca storica sotto il nome di Zeus πατήρ – gli indoeuropei personificavano la natura onnipotente, tutrice dell’ordine umano e di quella particolare associazione statale che, composta dall’insieme di grandi famiglie – le cosiddette phratrìai – riuniva persone accomunate da un solo ceppo di origine e da un solo idioma. La linguistica comparata ha dimostrato il profondo influsso civilizzatore esercitato dalla popolazione pre – indoeuropea della Grecia sulla vita e sulla mentalità degli immigrati. Tale popolazione è indicata dalla scienza moderna col nome di “Egei”: si tratta delle stesse genti che i greci definirono di volta in volta “Cari”, “Lelegi” o “Pelasgi”. L’assunzione del patrimonio culturale antico– mediterraneo testimonia un lungo periodo, relativamente incruento, di scambi, durante il quale i nuovi arrivati fecero propri molti elementi degli abitanti della regione. La prima immigrazione indoeuropea nell’Ellade non va concepita, peraltro, come un processo unitario, ma come un afflusso graduale e discontinuo di tribù e di gruppi, in un continuo alternarsi di pace e guerra; è certo, comunque, che al termine delle ondate migratorie l’elemento indoeuropeo finì con l’esercitare una indiscussa supremazia politica sugli abitanti mediterranei del paese. Da questa commistione antropologica e culturale, conclude Bengtson, “ebbe origine, nel II millennio, il popolo greco”.
All’inizio del Tardo Elladico – cioè, come abbiamo visto, alla metà circa del XVI secolo a. C. – l’elemento “ariano”, dopo un lungo periodo d’incubazione, penetrò a tal punto nel tessuto sociale della Grecia continentale da imporsi quale ceto egemone. La civiltà alla quale esso diede vita ebbe come simboli le rocche fortificate, sedi di un’aristocrazia guerriera potente e bellicosa; i suoi valori – la guerra, la faida e le feste di corte – si distaccano vistosamente da quelli della popolazione contadina, la cui cultura aveva improntato di sé il Medio Elladico. Quest’epoca eroica e questa civiltà sono note sotto la denominazione di “micenee”, da Micene, la rocca dell’Argolide ricordata da Omero come πολύχρυσος (= “ricca d’oro”, cfr. Odissea, III, 305). All’inizio i micenei subirono senza alcun dubbio il condizionamento della più evoluta cultura cretese, per poi distaccarsene nettamente in seguito; gli influssi minoici tornarono a essere preponderanti nel XV secolo, in un momento di decadenza dell’Ellade prima della nuova fioritura dell’inizio del XIV secolo. Il distacco fra le concezioni della vita proprie delle due civiltà ci appare in tutta la sua evidenza nel campo dell’architettura: nelle costruzioni monumentali dell’età micenea, infatti, si manifesta uno spirito eroico e guerriero che non ha più nulla in comune con gli ideali cretesi. Bengtson rileva, infatti, che mentre la civiltà minoica sembra affidarsi per intero alle fugaci attrattive del momento, gli Elleni innalzano edifici destinati all’eternità: possenti mura di pietre in opera poligonale si ergono sulle montagne, e le porte ben protette da robuste sporgenze testimoniano del carattere guerriero dei signori locali. Al centro della rocca si eleva il palazzo con il grande atrio di rappresentanza, la cui forma è data dalla stanza principale, il μέγαρον, col focolare al centro. Qui il signore consuma il pasto con i suoi vassalli, ed è nel μέγαρον che lo straniero o l’esule è sotto la tutela di Zeus ξένιος, “protettore degli ospiti”. Attorno all’atrio aperto la casa si chiude ad anello, con corridoi e stanze per i servi, diversamente da quanto accade a Creta, dove i palazzi ammassano disorganicamente le stanze più diverse intorno a un ampio cortile centrale, in modo tale da disperdere qualsiasi visione d’insieme e ogni ordinamento dello spazio, come avviene nel mitologico labirinto, non a caso situato a Cnosso. Cogliere e distinguere i caratteri dell’età micenea costituisce un indispensabile punto di partenza per la comprensione dei poemi omerici e, in generale, della saga degli eroi greci, che – come è stato autorevolmente dimostrato – affonda le sue radici in quell’epoca, pur accogliendo, come è ovvio, elementi propri della vita politica, sociale ed economica di periodi successivi. Specialmente nell’Iliade è palese che le figure degli eroi guerrieri sono ricalcate su esempi tratti dalla realtà storica dei nobili micenei i quali, armati di lancia e di una spada corta, si recavano in battaglia sopra carri da guerra da cui scendevano per attaccare a piedi il nemico. Al loro fianco combattevano gli etàiroi, i compagni, ovvero gli uomini del seguito che prendevano il pasto in comune nella casa del signore; questi impegnava, a sua volta, il proprio onore nell’ospitarli e nel distribuire loro la giusta parte di bottino. In caso di grandi imprese guerresche (ad esempio l’assedio di Troia) i principi potevano allearsi, riconoscendo uno fra loro come capo e legandosi a lui con un giuramento solenne; al termine dell’operazione bellica la coalizione cessava, e con essa veniva meno qualsiasi vincolo di subordinazione. La preponderanza assunta dalla nobiltà micenea e dalla sua civiltà nella vita della Grecia si manifesta anche sul piano onomastico. Il nome della stirpe indoeuropea degli Achei, infatti, finì con l’indicare, per sineddoche, il complesso delle genti dell’Ellade: in Odissea, XII, 184 le Sirene si rivolgono a Odisseo appellandolo mšga kàdoj /Acaiîn, “grande gloria degli Achei”.
Alla fine del Tardo Elladico, intorno al 1200 a. C., questo mondo guerriero e aristocratico conosce una crisi irreversibile. In quel periodo, infatti, si verifica il fenomeno che gli storici chiamano “Grande Migrazione” e che segna una netta cesura tra l’Età del Bronzo e l’Età del Ferro. Per motivi ancora da accertare, nella seconda metà del II millennio alcune popolazioni stanziate nella pianura ungherese, antenate degli Illiri, cominciarono a premere verso Sud, determinando, in conseguenza, lo spostamento dei Traci a oriente, verso l’Asia Minore, e dei Greci verso mezzogiono, nel Peloponneso, e da qui fino a Creta e alle Sporadi. La pressione degli Illiri si manifestò specialmente sui Dori, abitanti del settentrione della Grecia. La migrazione di questi ultimi verso sud concluse l’indoeuropeizzazione dell’Ellade, e assestò il colpo di grazia alla grande e gloriosa civiltà micenea. D’altra parte, al momento dell’arrivo dei nuovi invasori l’antica cultura achea aveva già da tempo imboccato la sua parabola discendente, e rimedi come il rafforzamento delle mura di Micene, nel XIII secolo, o la costruzione di una roccaforte sulla collina di Tirinto riuscirono solo a ritardare il tracollo finale. L’impatto della migrazione dorica, che si svolse da nord a sud, fu – ricorda Bengtson – devastante: oltre ai grandi centri dell’Argolide caddero in rovina Koraku e Zygouries – Kleonai nella Corintide, né vennero risparmiate Creta e le isole meridionali dell’Egeo, fra cui Milo con Phylakopi. Alla fine dell’invasione il tessuto etnico e sociale della Grecia continentale si presentava totalmente stravolto: i Dori andarono a costituire l’elemento dominante nella zona orientale e in quella meridionale del Peloponneso, anche se essi, lentamente, si fusero con la popolazione achea, come quest’ultima aveva fatto, a suo tempo, con i popoli antico – mediterranei. Contemporaneamente l’invasione dell’Asia Minore da parte delle tribù tracie creava conseguenze, dirette e indirette, assai gravi. In Anatolia il regno ittita, che vantava cinque secoli di storia, fu travolto dal meccanismo messo in moto dalla Grande Migrazione. Oggi diversi elementi, corroborati dalle scoperte archeologiche e dalle indagini su nuove fonti, fanno attribuire la scomparsa della compagine statuale ittita ai cosiddetti “Popoli del Mare”; un’iscrizione egiziana dei tempi di Ramses III permette di ricostruire l’itinerario percorso da queste genti dall’Asia minore, attraverso la Cilicia, la Siria e la Fenicia, fino al confine orientale dell’Egitto, dove vennero fermate. Intanto nel Mediterraneo, fra il 1000 e l’800 a. C., i Fenici occuparono il posto che era rimasto vacante dopo la caduta di Creta e la disfatta degli Achei. Insieme a essi, sul mare, fecero la loro comparsa gli Etruschi i quali, all’incirca nello stesso periodo, giunsero dalle coste dell’Egeo in Italia, stabilendosi nell’attuale Toscana.
Tale è, dunque, il contesto entro cui si muove l’interpretazione storico – antropologica dei miti greci dello scrittore inglese Robert Graves, da cui Angelo Manna, per sua stessa ammissione, ricavò gli strumenti esegetici per la decodifica della saga di Odisseo e, in particolare, dell’episodio legato alle Sirene. La storiografia scientifica più accreditata mantiene, comprensibilmente, un atteggiamento di grande cautela riguardo al problema della primissima religiosità greca. Il punto centrale della questione viene comunemente identificato nella posizione degli Indoeuropei invasori nei riguardi delle credenze dei popoli antico – mediterranei. Sembra accertato che la religione minoica esercitò una profonda influenza sugli abitanti dell’Ellade, come dimostrerebbe l’origine cretese di Artemide nonché della “dea dei Pelasgi”, più tardi venerata col nome di Atena; l’assenza di immagini di culto antropomorfe, invece, potrebbe essere la prova dell’accoglimento di un’eredità indoeuropea. Agli dei si rendeva culto nei boschi sacri, nelle caverne e in cima ai monti; ancora sconosciuti erano, invece, templi e santuari. Non si è riusciti a comprendere, invece, il gioco dei reciproci influssi tra immigrati e popolazioni locali nel campo delle usanze funebri. Di sicuro si può soltanto dire che nella Grecia micenea l’inumazione è l’unica forma di sepoltura conosciuta: solo a partire dall’XI secolo, e molto lentamente, iniziò a diffondersi la pratica dell’incinerazione, largamente documentata, invece, dai poemi omerici. L’epos pervenutoci con l’Iliade e l’Odissea accoglie infatti – come abbiamo accennato – suggestioni ed elementi appartenenti a epoche e civiltà diverse, pur inseriti sopra un sostrato culturale prettamente e inequivocabilmente miceneo. I poemi omerici costituiscono, in effetti, il prodotto di uno sviluppo secolare, i cui primordi vanno fatti risalire al periodo della migrazione dorica. Tale sviluppo giunse a uno stadio decisivo quando la canzone eroica, dapprima patrimonio dell’aristocrazia, passò a essere coltivata da cantori professionisti (aedi e rapsodi) che andavano nelle corti dei principi a rievocare col canto le glorie degli antenati. Sia l’Iliade sia l’Odissea emanano da una sfera nobiliare e guerriera, i cui ideali si esprimono nella rivendicazione della gloria della propria stirpe, nella lotta e nella vittoria, nella sete di bottino, nel gusto per le dispute e le competizioni. Tuttavia, come suggerisce acutamente il solito Bengtson, in entrambi i capolavori dell’epica greca la fantasia poetica ha saputo fondere due mondi diversi in un insieme indissolubile: l’età micenea, appunto, e il mondo di colui (o coloro) che diede (o diedero) forma alle due creazioni, plasmandole secondo un piano unitario: è il mondo del IX – VIII secolo a. C., la cui voce ha potuto avere risonanza ed eternarsi anche grazie all’invenzione della scrittura, introdotta nell’Ellade intorno al X – IX secolo grazie a un geniale adattamento della scrittura alfabetica dei Fenici.
L’esegesi di Graves tiene conto dei complessi problemi storiografici qui appena accennati nell’interpretazione delle saghe degli eroi di Troia, e in particolare di quella di Odisseo. Al tempo stesso, però, essa trascende – senza contraddirli – gli scarni risultati conseguiti dall’archeologia, dall’etnologia e dalla linguistica, prendendo le mosse da un’ ardita ricostruzione delle condizioni politiche, sociali e culturali del continente europeo prima dell’invasione ariana. In tutta l’Europa del Neolitico – afferma lo studioso britannico – le credenze religiose presentavano un marcato carattere di omogeneità, ed erano basate sul culto di una dea Madre dai molti appellativi, venerata anche in Siria e in Libia. Tale divinità, immortale, immutabile e onnipotente, dominava totalmente il pensiero religioso, tanto da escludere da esso il concetto stesso di “paternità”. L’elemento maschile, quando compariva, svolgeva un ruolo totalmente passivo: gli uomini tenevano la matriarca, la riverivano e le obbedivano; il focolare che essa alimentava in una grotta o in una capanna fu il loro primo centro sociale e la maternità il loro primo mistero. Ciò spiega come mai, anche in epoca molto più tarda, la prima vittima di un sacrificio pubblico greco veniva sempre offerta a Estia del focolare; Graves ipotizza perciò che il più diffuso tra gli emblemi di questa divinità – un bianco simulacro aniconico raffigurato a Delfi come ombelico – rappresentasse forse, in origine, un cumulo di bianca cenere ammassato sopra la brace viva perché questa si conservi accesa. In seguito esso venne identificato con il tumulo ricoperto di calce sotto il quale era sepolta la bambola del grano destinata a risorgere come germoglio nella stagione primaverile, e con i tumuli di conchiglie, quarzo e marmo bianco che coprivano le tombe dei re defunti. Il simbolo celeste della dea, invece, era naturalmente la Luna; talvolta però anche il Sole, sebbene quest’ultimo venisse ritenuto meno importante, in quanto era la Luna ad ispirare il più profondo terrore superstizioso, essendo l’astro che non attenua la sua luce quando l’anno volge al termine e ha, in più, il potere di concedere o negare le piogge nutrici dei campi. Le tre fasi della vita del satellite, inoltre, si rispecchiavano all’interno del mito nelle tre ere della vita della matriarca: vergine, ninfa (nubile) e vegliarda. In seguito il carattere “trino” della dea si arricchì di nuovi e pregnanti significati: poiché il corso annuale del Sole ricordava anche il crescere e il decrescere delle forze fisiche della divinità (la primavera come vergine, l’estate come ninfa, l’inverno come vegliarda), essa venne identificata con i mutamenti stagionali che scandiscono la vita delle piante e degli animali, e dunque con la Madre Terra che all’inizio dell’anno vegetativo produce soltanto foglie e boccioli, poi fiori e frutta e infine si isterilisce. A un’epoca ancora successiva deve infine attribuirsi la personificazione delle fasi della vita della dea nella vergine dell’aria, nella ninfa della terra e nella vegliarda del mondo sotterraneo: rispettivamente, Selène, Afrodite ed Ecate. Queste mistiche analogie contribuirono a rivestire il numero tre di un sigillo sacro, che si rafforzò quando la dea Luna cominciò ad essere simboleggiata dal numero nove, essendosi manifestate a loro volta in triade ciascuna delle sue tre persone. Allorché fu ufficialmente stabilito il rapporto tra coito e gravidanza – scrive Graves – la posizione dell’uomo migliorò sensibilmente anche sul piano religioso, e il merito di fecondare le donne non fu più attribuito ai fiumi e ai venti. Nel mondo pre–ellenico, dunque, la ninfa tribale, immagine terrena della divinità trina, cominciò a scegliersi tra i giovani del suo entourage un amante, il re, che sarebbe stato sacrificato alla fine dell’anno, e che divenne, in tal modo, un simbolo apportatore di fertilità più che un mero strumento del piacere della ninfa. Il suo sangue, sparso tutt’intorno, serviva infatti a rendere fecondi i campi, gli alberi e le greggi, mentre le sue carni erano fatte a pezzi e divorate crude dalle ninfe compagne della regina, sacerdotesse mascherate da cagne, giumente o scrofe. La terribile usanza fu poi modificata: il re, “divino paredro” (dal greco πάρεδρος = che siede, sta vicino, appresso), moriva quando la forza del sole, con la quale egli s’identificava, cominciava a declinare a mezza estate, e un suo vero o supposto gemello diventava a sua volta l’amante della regina, per essere anch’egli sacrificato a metà inverno reincarnandosi, quale ricompensa, in un serpente oracolare. Lo stato di subordinazione dell’elemento maschile nel contesto pre-ellenico si rifletteva perfino nel computo del tempo, suddiviso a seconda delle lunazioni; tutte le cerimonie più importanti, inoltre, erano celebrate in corrispondenza di determinate fasi della luna. Fu così che il numero sette acquistò un particolare carattere sacrale, perché il re era fatto morire durante la settima luna piena successiva al giorno più corto. Anche quando, con l’evolversi delle cognizioni astronomiche, si decise di fissare a trecentosessantaquattro giorni e qualche ora la durata dell’anno solare, si divise quest’ultimo in mesi, cioè in cicli lunari. Il mese era a sua volta ripartito in ventotto giorni, corrispondenti al ciclo mestruale femminile. Venne in tal modo a formarsi un anno di tredici mesi, contati a partire dal solstizio d’inverno, eccedente di un giorno che – intercalato fra il tredicesimo mese di un anno e il primo dell’anno successivo – divenne il più importante poiché in esso, appunto, la ninfa tribale sceglieva il suo divino paredro, di solito il vincitore di una gara di lotta, di corsa o di tiro con l’arco.
Nell’antica mitologia greca, secondo lo scrittore inglese, si riflettono soprattutto quei mutevoli rapporti tra la regina e i suoi amanti che iniziano con il sacrificio annuale (poi biennale) del re e terminano col tramonto del matriarcato. Il mito di Perseo che decapita Medusa, per esempio, può essere letto come la trasposizione simbolica dell’arrivo degli Elleni patriarcali i quali, invadendo la Grecia e l’Asia Minore all’inizio del secondo millennio avanti Cristo, sfidarono la potenza della triplice dea occupandone i templi, strappando alle sue sacerdotesse le maschere di Gorgoni e appropriandosi dei cavalli sacri. Nella realtà storica il processo che portò al prevalere di uno dei due ordini politico sociali sull’altro fu, come abbiamo visto, lento e complesso. Le invasioni eoliche e ioniche consistettero, infatti, nell’infiltrazione progressiva di piccoli gruppi di mandriani armati devoti alla trinità maschile ariana (Indra, Mitra e Varuna) i quali, attraversato il monte Otri, si insediarono tra le popolazioni pre – elleniche in Tessaglia e nella Grecia centrale. Tutti gli antichi miti che parlano degli amori di dei e ninfe, secondo Graves, si riferirebbero ai matrimoni tra i capitani ellenici e le locali sacerdotesse della Luna. L’arrivo degli eoli e degli ioni allentò la severa disciplina matriarcalista e, conseguentemente, si cominciò a considerare troppo breve il periodo di regno concesso al divino paredro: l’anno di tredici mesi, pertanto, fu prolungato nel Grande Anno di cento lunazioni, nell’ultima delle quali l’anno solare e l’anno lunare coincidevano approssimativamente. In compenso il re acconsentì a subire ogni anno una morte “apparente” e a cedere il trono per un solo giorno, lo stesso giorno intercalato nel quale, anticamente, la ninfa tribale eleggeva lo sposo; al suo posto cominciò quindi a essere sacrificato un re fanciullo o interrex che moriva al termine del giorno stesso, il cui sangue veniva spruzzato ritualmente nei campi per fertilizzarli. Il divino paredro, invece, regnava per l’intero Grande Anno, avendo il suo successore quale luogotenente; in altri casi accadeva che i due regnassero ad anni alterni, oppure contemporaneamente previa divisione del regno tra loro da parte della matriarca. Il divino paredro sostituiva la regina in molte funzioni sacre, indossando le sue vesti, applicandosi seni finti, prendendo a prestito l’ascia lunare – simbolo del potere – e celebrando i riti magici propiziatori della pioggia. La sua morte avveniva secondo svariate modalità: egli poteva essere fatto a pezzi da donne invasate, trafitto da una lancia, atterrato a colpi d’ascia, colpito al tallone da una freccia avvelenata, gettato in mare dall’alto di una scogliera, bruciato su una pira, annegato in una fonte o travolto da un cocchio. A una nuova fase, caratterizzata dall’ulteriore indebolimento della presa del matriarcato, risalgono la sostituzione dell’interrex con un animale sull’altare del sacrificio e il prolungamento del periodo di regno del divino paredro. Questi, dividendo il reame in tre parti e attribuendone due ai suoi successori, si arrogò il diritto di regnare per un altro Grande Anno; a suo favore giocò anche il fatto che nuove ricerche astronomiche avevano stabilito una coincidenza più esatta tra l’anno solare e l’anno lunare ogni diciannove anni, cioè ogni duecentotrentacinque lunazioni. Il grande Anno diventava, così, il Grandissimo Anno. Ciononostante, anche in tale epoca la tradizione matrilineare riuscì a resistere: il re sacro continuò a mantenere la sua posizione soltanto grazie al matrimonio con la ninfa tribale che veniva eletta o per aver vinto una gara di corsa tra coetanee o per diritto di ultimogenitura, vale a dire perché era la più giovane figlia nubile del ramo cadetto della famiglia, finché qualche re audace decise di commettere incesto con l’ereditiera, che veniva considerata sua figlia, e acquistò così un nuovo diritto al trono quando il suo regno volgeva al termine. Il patriarcato poté avere definitivamente ragione di questo mondo arcaico e barbaro solo alla fine del XIII secolo avanti Cristo, a seguito delle invasioni achee. Da quel momento in poi, infatti, i re riuscirono a regnare vita natural durante; con l’arrivo dei Dori, verso la fine del secondo millennio, la successione patriarcale divenne quindi la regola. Il principe, pertanto, non abbandonò più la casa paterna per sposare una principessa straniera, ma fu quest’ultima a seguire il marito, come Penelope fece con Odisseo. Sul piano religioso il culto della dea Madre venne sostituito dal sistema religioso olimpico, che però, lungi dal soppiantare totalmente il primo, si configurò come un compromesso fra la tradizione ellenica e quella pre – ellenica: si ebbe così una divina famiglia di sei dee e sei dei, capeggiata da Zeus e da Era, una sorta di “concilio” celeste. Tuttavia, dopo una rivolta della popolazione pre – ellenica, trasfigurata, nell’Iliade, in una cospirazione contro Zeus, Era fu subordinata al marito, Atena si dichiarò “tutta per il padre” e Dioniso, spodestata Estia, assicurò agli dei la maggioranza nel divino consesso.
L’analisi della mitologia greca di Robert Graves, ingegnosamente applicata da Manna alla decodifica dell’epopea del “divino paredro” Odisseo, nasce quindi dallo studio dell’archeologia, della storia e delle religioni comparate “e non nel gabinetto di consultazione di uno psichiatra”, sostiene l’arguto scrittore inglese polemizzando con l’interpretazione psicanalitica di Jung e dei suoi seguaci. Secondo questa chiave di lettura, dunque, i miti non costituiscono “rivelazioni originali della psiche precosciente, involontarie affermazioni di ciò che avviene nell’inconscio”, bensì “drammi rituali” il cui metodo di trasposizione del dato storico nel simbolico è comune a tutte le letterature sacre che abbiano codificato la radicale riforma di antiche fedi. L’età del bronzo e l’inizio dell’età del ferro in Grecia non furono dunque l’infanzia dell’umanità, come vuole la definizione junghiana, né la Chimera, la Sfinge, la Gorgone, i Centauri, i Satiri possono essere considerati cieche manifestazioni dell’inconscio collettivo, cui non si può né si potrà mai attribuire un preciso significato. Ad esempio, il mito di Zeus che inghiotte Meti, dea della saggezza, e partorisce Atena attraverso un buco della testa non è una “fantasia irreprimibile”, ma un ingegnoso dogma teologico che mette capo a tre interpretazioni contrastanti, così individuate da Graves:
1) Atena era nata per partenogenesi da Meti, vale a dire era la più giovane persona della trinità che faceva capo a Meti, dea della saggezza.
2) Zeus inghiottì Meti, vale a dire gli Achei soppressero il suo culto e attribuirono il monopolio della saggezza a Zeus come dio patriarcale.
3) Atena era figlia di Zeus, vale a dire gli Achei fedeli a Zeus risparmiarono i templi di Atena purché i suoi devoti accettassero la suprema divinità di Zeus.
È il caso di lasciare ai lettori il piacere di seguire, nel suo dipanarsi, l’arguto e sapiente gioco intellettuale che Angelo Manna conduce, con esiti felicissimi, quando applica alla materia del suo saggio le teorie dell’autore britannico. Certamente chi tra essi deciderà di condividere – in virtù di una ponderata riflessione scientifica o semplicemente per la suggestiva forza dei suoi argomenti – l’esegesi storico – antropologica dei miti greci, non si scandalizzerà troppo nel convenire con lo scrittore napoletano che il mito delle “donne alate”, cui i tafii attribuirono quale dimora gli scogli oggi noti come Li Galli, “scaturì dalle rievocazioni delle disavventure psico-fisiche prodotte non dalla follia o dall’ubriachezza o dalla mania di raccontare balle, ma dal classico stato di incoscienza in cui versa chi non vede l’ora di fare l’amore (quindi l’associazione delle voci della natura a prostitute della costa o degli scogli è istintiva), è colto da un’insolazione terribile durante la navigazione nell’ora canicolare, mentre Sirio campeggia, il mare e il cielo si confondono, il vento si arresta, la nave scivola sull’onda morta ed è spinta solo a forza di braccia, gli uccelli cantano, il sole brucia, martella, si sta tra la vita e la morte, ed è più facile morire che sopravvivere”. Partenope, Leucosia e Ligeia, demoni ctonii al servizio di Persefone, si suicidarono dopo che Odisseo scampò alla loro malia, come canta Omero nel XII libro dell’Odissea, anche se non fu il poeta greco ad accennare alla loro morte. La scomparsa delle Sirene ad opera dell’eroe “distruttore di città”, afferma Manna sulla scia di Graves, rappresenta un simbolo della sconfitta dell’antica società matrifocale, matrilineare e – in definitiva – matriarcale pre-ellenica ad opera dell’emergente patriarcato recato dagli arii (montanari eoli e pastori ioni) invasori della Grecia duemila anni prima di Cristo. Lo scrittore napoletano, dunque, ci introduce alla conoscenza di un nuovo Ulisse, anzi del “vero” Ulisse, il cui viaggio novennale, spiega Manna, lungi dall’essere motivato dall’“ardore / ch’egli ebbe a divenir del mondo esperto”, “è anche e forse soprattutto la ricerca della espiazione diretta alla purificazione totale della Mente e dello Spirito […] attraverso l’esame psico-analitico dei mostri” compiuto alla reggia di Alcinoo. Qui il guerriero “grande gloria degli Achei” rivive il dolore arrecatogli – nel corso del suo νόστος – da “mostri schifosi e incantesimi malefici che rappresentano gli spettri tormentosi delle sue criminose malefatte”, dei delitti da lui perpetrati nella piana di Troia, e in quel dolore egli trova la sua finale catarsi.
Fantasie? Arzigogoli? Interpretazioni arbitrarie e arrischiate? Sarà chi deciderà di sfogliare il libro a rispondere. Angelo Manna, nelle circa trecento pagine di questa densissima opera postuma, la risposta se l’è già data da solo: “Stanno storcendo il muso ventisette secoli di lettori aberrati ? E già…Ma la nostra lettura fila, purtroppo…Fila !”
Per la verità, a dispetto dei compiacimenti polemici dell’autore, le conclusioni cui egli giunge a proposito dell’origine di Neapolis potrebbero non spiacere ad alcuni fra i più illustri dei lettori disseminati lungo l’arco di duemila e settecento anni. Manna, infatti, corrobora le sue ipotesi con argomenti tratti da un attento esame filologico delle scarse e reticenti fonti letterarie esistenti sull’oggetto della ricerca e, soprattutto, con il ricorso alle aggiornate conquiste dell’archeologia rivelando, anche in questo campo, una sorprendente padronanza della materia e un’ispida e vivace intelligenza nell’argomentare. Recentissimi riscontri – si pensi alle scoperte compiute grazie agli scavi per la linea metropolitana realizzati negli ultimi mesi a Piazza Bovio e a Piazza Nicola Amore – sembrano confortare, se non tutte, certamente molte fra le conclusioni maggiormente significative cui egli perviene; se ne deduce che il lavoro compiuto dal saggista napoletano in quest’opera postuma è evidentemente frutto di una paziente e attenta opera di confronto dei contributi più significativi offerti dalla storiografia moderna e contemporanea sulla questione – Neapolis, da Bartolommeo Capasso e Giulio De Petra fino a Mario Napoli, Ettore Lepore e altri studiosi illustri, tuttora in attività.
A ogni modo, qualunque riflessione sulle vicende remote del capoluogo campano non può prescindere dal più generale contesto della storia greca tra il 1100 e il 500 a. C., che copre i due periodi denominati, dal Bengtson, l’uno “civiltà dell’età di transizione” (1100 – 800 a. C.) – corrispondente ai secoli immediatamente successivi all’espansione dorica – e l’altro “periodo della grande colonizzazione” (800 – 500 a. C.). La prima epoca, nota anche come “Medioevo ellenico”, fu caratterizzata da un notevole impoverimento materiale degli abitanti della Grecia, accompagnato da un vistoso regresso della loro civiltà, nonché dalla spaccatura della koinè micenea manifestatasi, parallelamente, nel campo artistico e in quello della politica e della vita statale, in Ellade e nelle colonie dell’Asia Minore occidentale. Eppure proprio in questa età così difficile vennero compiute, come accennato in precedenza, quelle prime, grandiose realizzazioni dello spirito greco che consistono nell’invenzione della scrittura alfabetica e nell’epos omerico. Esse costituirono, alla fine dell’età di transizione, il punto di partenza della rinascita ellenica, coincidente con l’espansione greca nel bacino del Mediterraneo. Infatti contemporaneamente alla cosiddetta “grande” o “seconda” colonizzazione ebbe inizio la prima tradizione storica scritta, sotto forma di elenchi di funzionari, liste di vincitori e altri cataloghi del genere, la cui origine è forse da attribuirsi al contatto con l’antico Oriente. In questo periodo la personalità individuale cominciò a innalzarsi per la prima volta dalla massa anonima del popolo, acquistando un proprio posto nella politica, nella poesia e nell’arte figurativa, spogliando cioè – secondo la felice formulazione del Bengtson – la storia ellenica del suo carattere collettivo. È l’epoca in cui fioriscono le prime grandi personalità creative della civiltà greca: la lirica, il genere letterario che meglio esprime la soggettività artistica, annoverò Archiloco, Alceo, Saffo, Anacreonte, mentre con Talete di Mileto, e con i filosofi ionici della natura, ebbe inizio la vicenda del pensiero e della scienza occidentale; grazie, poi, all’ateniese Solone, a Pittaco di Mitilene e ai tiranni Periandro, Pisistrato e Policrate il genio greco mostrò il suo talento costruttivo anche nel campo della vita dello stato. Il mondo dello spirito gettò quindi un ponte sulla moltitudine delle stirpi e delle comunità politiche elleniche, creando per tutti i greci una patria ideale, fondata sulla comune paidèia, in evidente contrasto con il frazionamento della Grecia arcaica, che si era manifestato perfino nel campo della cultura. Alla base della nuova koinè ellenica fu anche la religione, destinata a legarsi sempre più indissolubilmente alla vita dello stato attraverso la progressiva codificazione e regolamentazione dei culti. Gli dei olimpici vennero affiancati da una fittissima schiera di divinità locali, emanazione della poliedrica varietà dello spirito greco. Un potente elemento di unificazione fu costituito dall’oracolo del dio Apollo a Delfi, introdotto dall’Oriente. L’etica annunciata dal dio delfico, infatti, divenne norma di comportamento per l’aristocrazia ellenica, e contribuì in misura decisiva alla formazione dell’uomo greco. È interessante rilevare, a tale proposito, che lo mentalità dell’Ellade, nonostante la sua accentuata religiosità, non si piegò mai all’autorità del dogma. Bengtson adduce quale prova significativa dell’irriducibile individualismo greco la vasta diffusione delle dottrine orfiche e del culto di Dioniso. I cosiddetti “misteri”, caratteristici di queste correnti religiose, coinvolsero col tempo fasce sempre più ampie di popolazione, probabilmente perché offrivano all’uomo in ricerca un tipo di rapporto “personale” con il divino che la fede negli dei olimpici non poteva soddisfare. Ma i riti dionisiaci esercitarono anche, in prospettiva, una funzione importantissima per l’intera cultura occidentale mediante le loro rappresentazioni: dalla recitazione cultuale a essi legata nacque difatti la tragedia attica.
Questa rapida e irresistibile espansione della grecità, sul piano territoriale e politico come su quello culturale, si ebbe a partire dalla metà dell’VIII secolo a. C. circa. Le sue motivazioni non sono del tutto chiare, tanto che da più parti è stata fornita un’interpretazione “esistenziale” e “psicologica” del fenomeno di migrazione, dietro al quale ci sarebbe stato un nuovo elementare modo di sentire la vita, cui riuscivano ormai stretti i confini della madrepatria. In realtà già varie fonti coeve offrono una spiegazione basata sul relativo sovrappopolamento dell’Ellade in quel periodo. Si può inoltre ipotizzare che taluni fattori di conflittualità sociale e politica abbiano contribuito a indurre migliaia di persone ad allontanarsi dalla madrepatria: basti pensare, ad esempio, all’opposizione di folti gruppi di cittadini contro i “tiranni”, titolari del governo personale vigente all’interno delle città stato (πόλεις) dell’epoca. Così pure non è da escludere che l’ampliamento e l’intensificazione dei traffici marittimi della Grecia – attestati con sicurezza già nel IX secolo a. C. – abbiano svolto un ruolo non secondario nel concorrere a determinare il fenomeno. Comunque sia, la “seconda colonizzazione” si configurò sin dall’inizio come progettazione e opera di singole persone e comunità; in nessun modo essa rispose all’indirizzo di un’autorità centrale. Alla testa del grande movimento di popolazione fu però ovunque la nobiltà greca, dalle cui fila provennero i fondatori delle città coloniali, gli “ecisti”, ai quali spettavano, dopo la morte, onori riservati agli eroi. Il rapporto “culturale” fra madrepatria e colonie si presentò generalmente assai stretto, essendo garantito dalla conservazione di usi, soprattutto religiosi, propri della πόλις di origine: la venerazione per le divinità cittadine, il sistema calendariale, i nomi dei funzionari, la classificazione degli abitanti per tribù. Dal punto di vista statuale, invece, la maggior parte delle città di nuova fondazione si costituirono come comunità autonome, indipendenti dalla madrepatria, seguendo un’ispirazione dettata certamente dal marcato individualismo proprio dello spirito greco. Gli ordinamenti coloniali segnarono, per di più, una significativa cesura nella cultura politica ellenica. I fondatori, infatti, diedero sempre alle nuove patrie la forma dello “stato comunitario”, diffondendo l’ideale della πόλις in regioni e continenti lontani; al tempo stesso essi posero, così, inevitabilmente le condizioni per il superamento dell’angusto modello dello “stato aristocratico”, dominante nell’Ellade arcaica e basato sul possesso della terra.
La direzione della seconda colonizzazione greca si indirizzò soprattutto verso le coste occidentali e settentrionali del Mediterraneo. Essa, invece, non si spinse – se non in casi isolati e sporadici – verso l’oriente e l’Asia Minore dove, a quell’epoca, l’impero assiro costituiva un possente e impenetrabile baluardo alla penetrazione. Viceversa a ovest esistevano condizioni assai più favorevoli: mancava, qui, una grande potenza politica e le genti italiche, tra loro in contrasto, si mostravano particolarmente aperte al commercio e alla ricezione della civiltà greca. Determinanti per garantire la possibilità stessa e il conseguente successo della “grande colonizzazione” si rivelarono i grandi progressi raggiunti dall’arte nautica, la costruzioni di navi grandi e capaci, atte ad affrontare per lunghi periodi il mare aperto e, infine, la conoscenza della geografia del mondo occidentale raggiunta dai navigatori ellenici sin dalla fine dell’età micenea.
Fu così, dunque, che attraverso lo stretto di Messina coloni provenienti dall’isola euboica – ma secondo Manna si trattava, in realtà, di kumei di origine eolica uniti a elementi calcidesi (da Calcide d’Eubea) – approdarono in Campania, dove costruirono una base sull’isola d’Ischia e, sopra un’altura isolata dell’antistante litorale tirrenico, fondarono, al più tardi verso la metà dell’VIII secolo, la città di Cuma. Quest’ultima andò a formare, insieme con gli altri insediamenti nati nell’Italia meridionale grazie all’arrivo di migliaia di emigranti dal Peloponneso settentrionale e dalla Locride, quell’insieme di centri coloniali che fu denominato, a partire dal VI secolo a. C., “Magna Grecia”.
Che la nascita di Neapolis sia in qualche modo da collegare a Cuma è un dato di fatto incontrovertibile, attestato sin dalla più remota antichità. Tale certezza, tuttavia, non risolve il problema costituito dalla scarsità e dall’ambiguità delle fonti letterarie che contengono informazioni circa i tempi e i modi di questa fondazione. In Partenope, le Sirene e Ulisse Angelo Manna ricava tutto quanto si può ricostruire in proposito attraverso la lettura dei testi di Strabone, Polibio, Plinio, Dionigi di Alicarnasso, Stefano di Bisanzio, Livio, lo pseudo Scimno e infine un Lutazio da identificarsi con Quinto Lutazio Catulo, console romano morto suicida nell’anno 87 a. C. Si tratta senza alcun dubbio di testimonianze preziose, che però forniscono notizie scarne, confuse e contraddittorie. D’altra parte, come lo stesso Manna non manca di rilevare, tutti gli storici sopra citati scrivono a grande distanza dagli avvenimenti narrati: il più anziano, il greco – romano Polibio, visse infatti nel II secolo a. C., e il più giovane, Stefano di Bisanzio, addirittura nel V d.C. Né il divario temporale può dirsi colmato dal quella che fu “la fonte di molte fonti antiche”, uno dei più preziosi punti di riferimento della storiografia greco–romana: Timeo da Tauromenio, fiorito non prima del IV secolo a. C. La chiave di volta e, insieme, la prova del nove dell’ardita ricostruzione di Manna è costituita da una nuova interpretazione d’un passo cruciale del grammatico ed epitomatore virgiliano Giunio Filargirio, su cui ci si è basati, in passato, per sopperire all’avarizia delle fonti. In esso Filargirio commenta il verso 564 del IV libro delle Georgiche che, insieme col precedente verso 563, suona: “Illo Vergilium me tempore dulcis alebat / Parthenope studiis florentem ignobilis oti” ovvero, secondo la traduzione di Enzio Cetrangolo, “Allora vivevo io, Virgilio, in seno alla dolce / Partenope, lieto e appartato fra cure tranquille”. A proposito di Parthenope, dunque, il commentatore riporta un’opinione che sarebbe stata espressa dal dotto Quinto Lutazio Catulo nelle sue perdute Communes historiae:
[Lutatius] dicit Cumanos incolas, a parentibus digressos, Partenopen urbem constituisse dictam a Parthenope Sirena[…]
Postquam ob locorum ubertatem amoenitatemque magis coepta sit frequentari, veritos ne Cymaeam desererent, iniisse consilium Parthenopen diruendi. Post etiam pestilentia adfectos ex responso oraculi urbem restituisse sacraque Parthenopes cum magna religione suscepisse, nomen autem Neapoli ob recentem institutionem imposuisse.
Non sembra in questa sede opportuno riportare la versione italiana del suddetto brano, perché è lo stesso Manna a fornirla, anzi a centellinarla accompagnando per mano il lettore “di sorpresa in sorpresa”, fino a fargli scoprire che tutti gli interpreti, per quindici secoli, hanno forzato Lutazio a dire quanto egli non si era mai sognato di affermare, e tutto ciò proprio a causa di un’erronea lettura del passo precedente. Basterà dar conto, in estrema sintesi, delle conclusioni cui lo scrittore e meridionalista napoletano perviene a proposito della nascita di Partenope e della successiva fondazione di Neapolis.
All’arrivo dei colonizzatori kumei ed eubei, ricorda Manna, il territorio della futura Cuma non era deserto; vi abitavano, infatti, le popolazioni degli Osci e dei Cimmeri. Esse furono ben presto sopraffatte dagli invasori, i quali “tradussero” mitologicamente questi avvenimenti nella storia di Eracle, che avrebbe distrutto i Giganti – per l’appunto – presso i Campi Flegrei. L’intento remoto dei nuovi arrivati consisteva nella creazione di uno scalo strategico, in modo tale da beneficiare di un punto d’appoggio in cui sostare o riprendere il mare verso la vera meta ultima del loro viaggio: le colline metallifere dell’Etruria. Quando essi misero piede a Cuma, pochi anni dopo l’indizione dei primi giochi olimpici del 776 a. C., nel territorio dell’attuale Napoli Παρθενόπη già esisteva e già veniva chiamata con questo nome. Tra la fine del IX e l’inizio dell’VIII secolo a. C., infatti, gruppi appartenenti alla popolazione egeo – anatolica dei rodii, che correvano il Mediterraneo svolgendovi funzioni di antipirateria, erano sbarcati nell’odierna zona di Santa Lucia, avevano occupato il promontorio platamonico di Megaride e si erano spinti fino alla collina di Pizzofalcone, senza incontrare, probabilmente, resistenza alcuna da parte dei clan autoctoni, di razza osca. Ai rodii si deve anche il “battesimo” del presidio da loro istituito; secondo Manna, però, sussistono forti probabilità che il nome di Partenope sia stato suggerito ai “cacciatori di pirati” dalla popolazione dei tafii, la cui presenza nel Mediterraneo è attestata, a Capri e a Sorrento, ancor prima dell’arrivo dei rodii nel golfo napoletano.
Nel 680 a. C. sulla stessa spiaggia luciana approdarono i Cumani, discendenti dei kumei e degli eubei di Calcide e di Eretria; Παρθενόπη, così, annetté al preesistente territorio dell’avamposto “tafio – rodio” lo spazio che andò via via occupando nel corso del suo naturale sviluppo urbanistico e demografico; questo insediamento “rodio – kumeo” fu soprannominato Palaiàpolis (= città antica), ma esso in quanto tale non prese mai un nome diverso da quello originario, fornitogli dalla mitologica sirena: l’appellativo di Palaiàpolis – spiega l’autore di Partenope, le Sirene e Ulisse – “non fu che l’allusione generica che i futuri fondatori di Neàpolis usarono per aggettivare l’antica loro patria”. Verso il 473 – 470 a. C., infine, a un paio di miglia aeree dal presidio “rodio – kumeo”, alcuni transfughi partenopei, emigrati per ragioni politiche, eressero una “città nuova” – una nèa pòlis, appunto – in perfetta continuità storica, etnico politica e perfino onomastica con Παρθενόπη: anche in questo caso, infatti, l’aggettivo “nuova” va inteso propriamente come aggettivo. Sintetizza Manna: “Vecchia Partenope e Nuova Partenope… I due quartieri, Palèpolis e Neàpolis, significarono soltanto questo”.
In definitiva, rigore e passione, acribia filologica e sapida destrezza nell’argomentare fanno di quest’opera postuma una lettura avvincente e fruibile con profitto da tutti i lettori sinceramente interessati alla storia patria. Con Partenope, le Sirene e Ulisse Angelo Manna ha lasciato l’ennesima testimonianza del suo tenace e insopprimibile amore per una città che egli stesso definì, nel corso di una memorabile conferenza tenuta in Santa Maria la Nova il 10 aprile 1988, “un esempio tipico di devastazioni spirituali, di cadavericità fisiche e mentali vaganti nel buio pesto, e benedette, alla sua maniera, dalla malasignoria nichilista […] un esempio tipico di desacralizzazioni storiche a oltranza, e di ignoranze e strafottenze comuni e non comuni elevate al massimo esponente, e tutte culminanti nell’apoteosi della beffa oltre il danno”. Contro i crolli materiali e morali subiti dai suoi concittadini napoletani – cagionati in non piccola parte da loro, dal cinico disprezzo e dalla voluta ignoranza della propria storia civile – Manna proponeva “la più disperata difesa dei Ricordi, delle Orme significative del nostro Passato, della Tradizione che ancora permea di sé la nostra presenza, il nostro modo di essere radicati nella nostra razza, il nostro modo di essere fedeli – anche se criticamente – alla nostra memoria storica, il nostro modo di pretendere di dover riascoltare le voci del nostro Passato – le risate di gioia, gli urli di dolore, gli spasimi degli amplessi legittimi o fedifraghi, gli echi dei trionfi e dei fallimenti di coloro che nel bene, come nel male, queste pietre posero le une sulle altre e fra queste pietre abitarono – per riascoltare noi stessi!”.
Il saggio su Neàpolis e sul mito di Odisseo rappresenta dunque l’ennesimo, prezioso contributo dello studioso partenopeo alla resurrezione delle “stratificate significatività” che fanno la ricchezza e la gloria della vicenda umana di Napoli e dei suoi abitanti. Mentre è in corso il progetto per dare alle stampe Partenope, le Sirene e Ulisse, a circa tre anni di distanza dalla scomparsa dell’autore, sembra venuto il momento di cominciare a riscoprire Angelo Manna, tenendo nella giusta considerazione il suo ineguagliabile talento di scrittore e di polemista, di cultore di storia patria e di appassionato e intransigente meridionalista. L’asprezza delle battaglie politiche da lui sostenute, la conseguente impopolarità di molte posizioni che egli ebbe ad assumere e – perché non dirlo? – il suo carattere, impetuoso e “guascone”, non gli fruttarono, mentre era in vita, la notorietà meritata; e anche quando, nel periodo del Tormentone, la gente comune prese a fermarlo in strada per manifestare il suo consenso a un “tribuno” televisivo così coraggioso, la “Napoli che conta” lo emarginò e misconobbe. Ricevette in tal modo l’ennesima conferma una regola amara ed eterna: il peccato d’intelligenza, specialmente se accompagnato dall’amore per il vero, non viene perdonato all’uomo di cuore e d’ingegno. Ma è pure legge di natura umana che spesso la statura di certi precursori si comprende appieno solo a distanza di tempo. Manna stesso amava fare allusioni scherzose al sigillo “profetico” impresso nel suo nome e cognome, e soleva esprimere l’incrollabile fede nell’arrivo di un franco, seppur tardivo, riconoscimento del valore della sua opera proferendo, tra il serio e il faceto, la sentenza: “Il napoletano mi eleggerà!”. Non si riferiva certo a un suffragio nell’accezione politica o partitica del termine, ma a un’“elezione” in senso etimologico; alla scelta – cioè – da parte degli abitanti di una “città – nazione” tre volte millenaria di raccogliere il testimone lasciato da uno scrittore che nel corso di tutta la vita si sforzò di operare per strappare la sua gente ai nefasti della cronaca nera, restituendola alla Storia.
Napoli, marzo 2004