Io presentare questi tuoi versi? Ma tu fusse asciuto pazzo? Tu sei padronissimo di comprometterti come, quando, dove e finché vuoi, io no … lo non me la sento di avallare le tue violente ribellioni; il tuo stato d’animo, sì, lo posso pure comprendere, ma mica lo posso condividere apertis verbis, ufficialmente; sarebbe come se accanto alla tua firma ci mettessi pure la mia. E poi che cosa si direbbe di me … lo so ccarta canusciuta … No, no! … Certo, i tuoi versi li trovo buoni, come no: bravo, bravo, insistisci ché ne vale la pena … Ma è la sostanza, capisci?, è la sostanza che mi fa fare il verme … Aoh! È roba che scotta! Te ne rendi conto? P’ ‘ammore ‘e Ddio … A chi vuo fà passà nu guajo? … No, no … Scusami tanto; eh? …
Prego tanto, eh?, e grazie lo stesso. Sagge parole di rinuncia. E quante ne ho ricevute! E più o meno tutte uguali … Ma mi ci sono divertito: ché la scoperta della viltà dei pezzi grossi dell’intellettualismo è sempre un divertimento, finanche quando è una scoperta che ti aspetti, scontata in partenza, prevista, matematica. Ti dà la misura dell’ intellettuale dei nostri giorni: se vuoi continuare ad essergli amico, gli devi parlare o devi invitarlo a parlare di cosucce così, magari melense, stucchevoli, lepide, o di cosucce à la page, di quelle che più avanguardistiche sembrano più sono le solite cosucce trite e ritrite delle quali si parla a sbafo finanche in un sacco e una sporta di riviste «impegnate»; ma non parlargli mai e non invitarlo mai a parlare di cose un tantinello più grosse e più serie, ché te lo fai nemico, ti comincia a sfuggire, a temere, ci mette poco a pensare che lo vuoi coinvolgere, inguaiare … Un articolo mezzo milione o su di lì, un romanzo tanti bei milioni l’uno sull’altro: ma ci deve mettere dentro tutta la sua disponibilità di conformista, di allineato e coperto, di servo; il padrone va sempre accontentato per bene, sennò, come si fa?, si perde la biada, si finisce sul lastrico …
Prego tanto e grazie lo stesso … Ma per aver avuto il saggio rifiuto di tanti miei amici intellettuali non dirò più di quanto ho detto sul loro conto. Per carità! Non dirò mai che l’élite culturale di questa nostra città (ma la cosa non riguarda soltanto gli intellettuali napoletani) è tutta una fetenterìa che si pasce di conformismo e procede per autocensure; non dirò mai che ad essa’ mancano soltanto la livrea e i guanti bianchi perché possa entrare nell’organico della «servitù di barda e di sella» che è il Gotha dell’ intellettualismo di maggiore spicco; non dirò mai che i suoi inchini ci stanno tutti quanti: da quello a novanta gradi, detto a squadra, a quello ad angolo acutissimo che ti fa pensare ad una V maiuscola capovolta dove l’una mazzarella sta a raffigurare le gambe giunte dell’inchinato, il vertice il suo popò appozato al massimo, e l’altra mazzarella ti dà l’immagine del suo tronco buttato giù, quasi a perpendicolo, anzi a strapiombo … (No, la lingua non c’è, nella V maiuscola capovolta: la lingua lecca, nascosta, lecca con avidità fra l’alluce e il secondo dito del piede destro del signor padrone, che è il piede che gli puzza di più … ). Non lo dirò, no no, perché, a onor del vero, non tutta l’élite culturale napoletana o nazionale striscia e si improscina, si mette a squadra e si caca sotto del padrone. E non lo dirò anche perché quello dell’inchino, quello della devozione cieca e del leccajuolismo cacaglioso è un vizietto generale, è comune, perbacco!, a chi è andato a scuola e a chi non ci è andato mai, è un vizietto abbastanza diffuso, e certamente è un vizietto assai ferente, perché è il sostrato, il fondamento, il puntello, la cariatide, il punto d’appoggio, la struttura portante del più vieto e più canagliesco conservatorismo.
Prego tanto e grazie lo stesso … Chi fa da sé fa per tre e per trecento-trentatré … Vuol dire che questi ventisei sonetti ribelli me li presento da me medesimo, e in tutta fretta perché ho fretta di farveli leggere.
Dunque: che cosa sono questi ventisei sonetti ribelli? Mozzicano? Sparano? Ma che hanno da mozzicare e sparare … Nossignore! Uccidono solamente, senza uccidere … Sono 524 versi, 524 endecasillabi con i quali ho endecasillabo la verità: una verità vera, e che perciò uccide, perché la verità vera è peggio delle bombe. E il guaio è (per gli altri, naturalmente), il guaio è che sono la millesima parte delle ribellioni che ho dentro di me, ancora inesplose ma abbastanza innescate, nate con me, cresciute e pasciute nei banchi del ginnasio, del liceo e dell’università; sono la millesima parte delle storie vere che ho letto, che ho visto con i miei occhi che non sono foderati di prosciutto, e che ho udito con queste mie orecchie che non prendono fischi per fiaschi, e sono le storie vere sulle quali mi sono formato intellettualmente e napoletanamente.
Si chiamano «Care paisane », questi ventisei sonetti ribelli, e sono altro che un’immagine momentanea della «realtà onirica», o un momento poetico appartenente non già alla mia esistenza concreta ma a quella che spesso si lascia rapire dalle muse: ma sono un’esplicitazione puntuale di sensazioni non già campate in aria, sono storia patria in versi, cronaca vera di millenni passati, da noi, fra calure insopportabili, vernate tremende, miserie, rassegnazioni, esodi massicci e indifferenze e torture atroci; e se non sono il frutto di un raptus estetico, non sono neppure una mera, accademica, platonica, compiaciuta ma distaccata difesa di una civiltà contadina azzannata, dilaniata, sbranata da una bieca a feroce civiltà industriale; e se non sono un’estatica, sognante visione nella quale ho creduto finché è stato l’estro a tenerla in vita e ad alimentarla, sono un credo nel quale ho creduto anche dopo aver liquidato la musa, un credo nel quale credo tuttora, nel quale crederò finché avrò vita.
Versi, sì: ma la fantasia non vi ha avuto alcun ruolo. La forma è poetica, ma la sostanza l’ho tratta da quella storia vera che nessuno potrà mai smentire senza correre il rischio di essere sputato sulla faccia: nessuno!
Il tempo degli scrittori salariati, degli storici asserviti, dei pennaruli bugiardi al soldo dei colonizzatori deve finire! Tanta gente l’ha scritta alla rovescia la nostra storia: tanta gente legata ai vincitori, ai barbari, agli assassini, ai fratelli d’Italia, ai ladri, agli usurpa tori, agli sterilizza tori del nostro Sud; tanta gente che ora deve cominciare a sentirsi dire in faccia: «piécure!, è ffernuta ll’èvera!»; deve cominciare a pensare a fare fagotto, deve andarsene dalle nostre terre, le nostre cose ce le deve lasciar fare a noi, deve smammare, restituirei con gli interessi tutto ciò che ci ha rubato in centoventi anni, ritirarsi in buon ordine; tanta gente che deve farsi capace che le cemmenere deve andarle ad alzarle altrove, lontano dalla nostra terra, perché la nostra terra, quel po’ di terra che ci è rimasto, serve a noi: ché ci dobbiamo ripiantare la dignità e la libertà che essa tanta gente ha sradicato in più di un secolo con la complicità di tanti politicanti rinnegati e di tanti falsi profeti che non erano degni di nascere nel Sud, crescere nel Sud, pascere nel Sud …
Non vi auguro buon divertimento, ché c’è poco da divertirsi in questi sonetti ribelli. Vi auguro molto di più: di capire, di non prendere sonno subito, di pensare almeno per un momento a tutto quanto …
Si fa l’Italia o si muore? Qui o la si smette di illuderei con l’Italia o davvero sarà la morte del Sud.