EMMANUELE ROCCO. Il Puoti l’odiò, e per lui fu la fine.

Con una passione che l’incalzante vecchiezza e il noioso doverci dar da fare a che la famosa fornacella stia sempre appicciata non scalfiscono né rallentano, ci consumiamo da oltre quarant’anni sulle pagine dei tanti libri antichi che fasti e nefasti della Napoli-che-fu raccontano senza rimpianti e senza disgusti. Sicché sentiamo il dovere di dedicare questo umile saggio di apertura ad uno dei nostri Maestri ideali: il quale si chiamò Emmanuele Rocco  e fu un pezzo da novanta della grande Cultura. Filologo, innanzitutto, e scrittore finissimo, sapido, acuto, e conferenziere brillante, persino umoristico, fu epigrammista ed epigrafista ricercato, latinista e grecista, colto, eccellente, parlò e scrisse alla perfezione in francese, inglese, tedesco, spagnuolo e portoghese, e tradusse da queste e in queste lingue, e queste lingue insegnò in scuole pubbliche e private, e scrisse centinaia e centinaia di articoli su decine di giornali, strenne, riviste, e fu ferrato finanche in materie giuridiche, in scienze naturali, matematiche e statistiche, ed insegnò, per pochi soldi, specialmente l’italiano, il latino e il greco nei licei classici, e, instancabile, insegnò gratis così ai ragazzi come agli adulti poveri nelle scuole popolari delle Società operaie, in quelle d’Arti e mestieri, in quelle Magistrali femminili…
E conobbe, da maestro che non sarà mai più superato, tutta la letteratura napoletana, dalla poesia al teatro, così come non fu secondo a nessuno nella conoscenza profonda dei classici, tanto antichi quanto moderni, dell’intera grande letteratura europea: da Omero e Virgilio a Shelley e Novalis, da Camoes e Lope de Vega a Byron e Leopardi, da Orazio e Dante a Hugo e Dickens, da Mistral e Chauser a Stendhal e Manzoni, da Ossian e Shake-speare a Scott e Lamartine…  
E sì: fu un vero e proprio big della Cultura, Emmanuele Rocco. Ma per averla troppo e troppo a lungo onorata, non fu capace di buscarsi neanche la croce di cavaliere che a quel tempo non si negava a nessuno dei tanti pidocchioni risaliti che infestavano Napoli. E non riuscì nemmeno a farsi la nicchia al camposanto, e nemmeno i soldi per le sue esequie riuscì a mettere da parte, e nemmeno uno dei suoi dieci figli riuscì a sistemare… Eppure, alla sua morte, quando la sua corrispondenza fu trasferita alla Biblioteca nazionale napoletana e cominciò la catalogazione delle prime ottomila lettere, si scoprì che a scrivergli familiarmente, a significargli la più profonda e sincera stima, a elogiare l’ultima sua pubblicazione o a ringraziarlo per le sue affettuose premure di correttore, erano stati taluni dei maggiori puntelli del Sapere italiano, pre e post-risorgimentale: Manzoni, Tommaseo, Fornaciari, Capponi, Fanfani, Niccolini, Amari, Niccolini,  Mamiani, Bianchini, Brofferio, d’Azeglio, Guerrazzi, Parzanese, Tosti, Melloni, Balbo, Martini, Cantù, Viesseux, Pellico, Regaldi, e tanti altri…

NICOLA CAPASSO. UN’ARCA DI SCIENZA E DI CRUDELTA’
Costans, acer, atrox
In vena anche di epigrammi, Alessio Simmaco Mazzocchi, il prodigioso archeologo, epigrafista, latinista, grecista, storio-grafo sammaritano che Isacco Newton considerava un oracolo (e il mondo dei dotti definiva Miraculum totius Europae…), si divertì a sintetizzare i tratti dell’intimo di Nicola Capasso in un elegante distico latino del quale è nota la prima parte
– Constans, acer, atrox, totus mens, totus acumen –
non la seconda, che molto di rado è citata, e neppure viene mai tradotta, quasi che il significato, che non è scontato, lo sia:
Haec animi facies, haud moror ora viri.
Per il più giovane amico e collega cattedratico, che era nato nel 1684, il sommo grumese era (traduciamo quasi alla lettera) un tipo imperturbabile, accanito, inesorabile, tutto intelletto e tutto acume. Ma questi  erano gli aspetti del suo animo: sulla maschera dell’Uomo meglio  sarebbe stato non soffermarsi
Intese, forse, il Mazzocchi, fare un complimento al legum primarius professor? I biografi (due: Marco Mondo e Carlo Mormile) ne furono sempre convinti. E così gli estimatori del Capasso. I quali, a parer nostro, considerarono l’ultima parte dell’epigramma un fatto… editoriale. Non avevano mai visto un ritratto del poeta… Sicché, quando, sedici anni dopo la di lui dipartita, l’ottuagenario Marco Mondo ruppe il silenzio-stampa, pubblicò, cioè, per la Stamperia Simoniana, quel volume prezioso (raro, oggi, ma non introvabile) che si intitolò Varie Poesie di Nicola Capassi primario professore di Leggi nella Regia Università di Napoli, l’equivoco prese corpo e… faccia. E perché ? Perché il vecchio Mondo volle riprodotto nell’antiporta, nella riuscitissima incisione di Filippo Morghen, il ritratto del de cuius (racchiuso, lo si vede, nell’ovale di rito comprendente il nome dell’effigiato e chi mai fosse stato), e volle, altresì, riprodotto, ai piedi di esso, l’epigramma del Mazzocchi. Ed accadde, che cosa ?, che i lettori – avendo avuto finalmente contezza della vera faccia del Capasso, e avendo letto il sottostante epigramma – tradussero bene la sua prima parte (e davvero non fu impresa eroica, la loro…), ma, giunti alla seconda, tradussero, per istinto, l’haud moror ora viri : ma è proprio necessario tentare di illustrare la faccia del poeta, la sua maschera, dal momento che l’editore si è premurato di stamparcela nell’antiporta del libro, sicché basta ammirarla per rendersi conto della scorbuticheria dei suoi tratti ?…
E, poveri lettori, non avevano neppure tutti i torti… Certo che se si fossero informati, avrebbero scoperto che l’epigramma non fosse  stato commissionato, Capasso morto, da Marco Mondo o dall’editore. Fosse molto più antico e fosse stato dettato dalla verve spontanea del suo autore, avesse origini tutt’affatto differenti da quelle immaginabili e immaginate… Si fossero informati, i lettori, avrebbero compreso che neppure il fedelissimo amico Marco Mondo (a meno che non avesse voluto fare il pesce in barile…) si fosse ben documentato sul significato di quel mezzo emistichio: avesse chiesto, sì, al non ancora scimunito Mazzocchi, il permesso di pubblicare i due versi, e l’ormai vegliardo sammaritano glielo avesse accordato. Non più di tanto, però, gli avesse chiesto il Mondo, nè più di tanto avesse aggiunto al proprio nihil obstat  il Mazzocchi…  

MOLINARO DEL CHIARO. GRAN BEL PUDORE SPUDORATO, IL SUO!
La Sterilizzazione del Sud
Soltanto un senso di sdegnata repulsione riusciamo a provare per quella degenerata combriccola di intellettuali meridionali (borghesi, grassi, liberal-radicali, indossanti livree con abbottonature ora a destra, ora a sinistra), i quali, fin dal tempo dell’unificazione italiana – che di italiano non aveva avuto un bel niente – profittarono dell’ascendente (che avevano conquistato grazie alle proprie meritate, o meglio ancora, usurpate fame, specie di letterati, critici, storici e filosofi) per indurre decine e decine di pastorelli della meraviglia (tutti ismaniosi d’imbrattar carte e penzolar, ahiloro, da’ saputi labbri de’ maestri…) a ragionare e a discettare di lingue e di dialetti per modo che, manco a dirlo, questi ne uscissero sodomizzati e criminalizzati, e quelle si buscassero, per omnia saecula saeculorum, la gloria degli altari e i giorni e le cifre in rosso sui calendari…
Certo è che se avesse potuto demonizzare e spedire all’inferno i dialetti senza correre il rischio di suscitare scandalizzate reazioni complete di fischi e pernacchie, il Parlamento subalpino, o quello successivo di Firenze, o quello definitivo di Roma, si sarebbe precipitato a legiferare ad hoc. Ma la crociata anti-italica fu ugualmente bandita, avviata e conclusa felicemente. Lanciò la sfida mortale alle parlate locali, in nome della nuova ragion di stato e per conto delle proprie malcamuffate ambizioni carrieristiche, la neopatentata nomenklatura culturale centrale, la rilanciarono le sue agenzie periferiche: come dire in prima linea il Pantheon dei bei cervelloni vivi (tutti venduti, grazie a Dio…), e, in seconda, il decentrato servidorame che pendeva dai suoi sabaudizzati zebedei. Obiettivo apparente i dialetti, obiettivo vero la cultura dei popoli che non poteva bastare aver vinto alla fine di una guerra che, mai dichiarata, non era mai stata una guerra, era stata una sudicia calata di orde barbariche.
Fatta l’Italia bisognava fare gli italiani. E quale altro perverso significato poteva avere questo slogan se non che, piemontizzata la Penisola, occorreva che i popoli vinti, assoggettati materialmente, andassero piemontizzati, a morte di subito, mentalmente, e andassero svuotati, disbattezzati, sterilizzati, spiritualmente ?
Una pletora di briganti che erano riusciti con l’inganno a spacciarsi per padri della patria, ma aspiravano a trasformarsi addirittura in tiranni perfetti e perpetui, non avevano bisogno di frequentare speciali corsi di avviamento professionale per sapere che le lingue dei vinti andassero strappate: e subito. Il pericolo che un giorno o l’altro potessero mettersi a farfugliare chissacché tutte insieme, era di quelli che gli abietti aspiranti dovevano saper scongiurare ad ogni costo.
E come infatti…