L’ANTEFATTO
Cinque o sei anni fa, al carissimo arciprete di Sant’Andrea Apostolo di Arienzo, don Francesco Perrotta (che i fedeli della diocesi di Acerra chiamano familiarmente don Ciccio e amano per la sua santità), venne il ghiribizzo di chiederci, a bruciapelo, il parere su certi versi che avevamo letto e riletto, insieme, ne La valle di Arienzo, Cantiche e Cenni storici, l’operetta men che passabile che il parroco Vincenzo Guadagnino, nativo di Talanico di San Felice a Cancello, aveva fatto stampare nel 1910 al tipografo-editore acerrano Francesco Fiore, e che tanti suessolani tuttora si vantano di conoscere dalla prima parola all’ultima.
Non che don Ciccio, il quale ci onora della sua amicizia fraterna da oltre quarant’anni, intendesse riproporci quelle proprio brutte anticaglie perché vi rigiudicassimo i versi sciolti che tante volte, e soltanto per carità cristiana, avevamo definito appena appena mediocri.
L’improvvisa riesumazione della scalcinata operetta aveva il preciso scopo di richiamare ancora una volta la nostra attenzione su alcune ottave (arcinote, sia a lui che a noi ) che l’assai incauto autore aveva messo in bocca nientemeno che all’Arienzano per antonomasia: in bocca, cioè, a Nicola Valletta, il bilingue sovrano del Diritto e dello Sfottò!
Sicché (potevamo fare altro?), ci schermimmo. Allora, come ora, si dava il caso che don Ciccio non fosse solo un esemplare uomo di Chiesa: fosse anche un pozzo di scienza. Forte di decenni di studi, di ricerche, di pubblicazioni, e padrone delle materie diciamo professionali, egli conosceva a menadito anche la storia delle comunità della valle di Suessola (denominazione recente e corretta del territorio che comprende, oltre Arienzo, Santa Maria a Vico, Cervino e San Felice a Cancello): e la conosceva a menadito talmente da meritarsela, eccome!, l’alta considerazione che persino insigni cattedratici, consultandolo, gli dimostravano.
E dunque (stavamo mangiucchiando, lui e noi, nella canonica dell’arcipretura: pane de furno a llene, fave, ventresca, vino frisco de cellaro…), ci stupimmo non poco della sua richiesta. Avevamo letto e riletto, proprio da lui, decine di autografi, quasi tutti inediti, dei più esilaranti sfottò di Nicola Valletta, ed egli aveva raggiunto tanta padronanza del soggetto quanto dell’oggetto, che un saggio più che esauriente sul primo e sul secondo avrebbe potuto scriverlo ad occhi chiusi senza invocare l’aiuto di nessuno!… E sui versi che di quel don Vincenzo Guadagnino avevamo letto, insieme (e soltanto di sfuggita, essendo entrambi, lui e noi, cagionevoli di stomaco…), quale ulteriore giudizio avremmo potuto esprimere che non avessimo già tante volte espresso, e che egli non si fosse benignato di condividere? Presi da un campanilismo neppure soltanto eccessivo ma addirittura cieco (questo avevamo sempre arguito), i suessolani avessero dato al parroco-poeta un ruolo da genius loci tutt’affatto spropositato rispetto ai suoi meriti…
Avremmo dovuto conciarlo ancora peggio? O avremmo dovuto pensare che, all’improvviso, lui, proprio lui, don Ciccio Perrotta, non fosse più in grado di distinguere la mano di un Nicola Valletta dal piede di un Guadagnino Vincenzo qualsiasi?
Ma non avevamo finito di fare questa onesta considerazione, che ci toccò di subire, secca e ostinata, la replica precisatoria (si puó dire?) del caro arciprete: Ngiulì’, ccà stace La Valle di Arienzo. I versi sui quali ho urgenza di avere ragguagli si trovano tra le pagine 36 e 38… Insomma: dell’insurrezione dei cafoni suessolani parlano molti storici… Vorrei saperne di più. E vorrei sapere se Nicola Valletta, in quella insurrezione, avesse o non avesse avuto il ruolo affibbiatogli da don Guadagnino… Ogge è sabato, e è bell’e passato, io domani ccà sto: tu, si mme vuo’ aiutà, tuorne e mme daie ’e rrisposte che aspetto…
E, augh, ho detto !, don Toro Seduto ci schiaffò il librosotto gli occhi, e piombò nel silenzio aspettando che gli rispondessimo…
Che facevamo: tornavamo l’indomani con le risposte?
L’umore del nostro solitamente dolce e tenero sant’uomo era quello del cane di caccia che ha puntato la quaglia e non ha intenzione di mollarla… Lo conoscevamo bene, don Ciccio, ed intuivamo che qualcosa di molto grosso frullasse nella sua mente di studioso, e la tenesse tesa, in apprensione.
Potevamo lasciarlo surplace per due giorni? E così, tagliammo corto. Aprimmo il libro di don Guadagnino, dell’insurrezione citata sapevamo, e seduta stante, dalla pagina 36 alla 38, ce lo mettemmo a rileggere, a rileggere ancora, a commentare…
Passarono non più di dieci minuti, don Ciccio zitto, noi assorti nella lettura. E liquidati di bel nuovo e pure a morte di subito, come grossolanamente apocrifi, i versi attribuibili a Nicola Valletta (nessun dubbio che fossero farina impappiciata del sacco del parroco-poeta: ma questo, don Ciccio e noi, lo avevamo sempre saputo), leggemmo e rileggemmo, finché non mettemmo a fuoco, finalmente, il motivo dell’inquietudine del nostro caro arciprete… E fu così che… a puntare la quaglia e a non avere intenzione di mollarla, i cani di caccia passarono a due… Don Ciccio e noi.
La lettura e la rilettura di quei decasillabi chiusi in ottave, quei decasillabi che ci rifiutammo anche con una punta di sdegno di attribuire all’autore della celeberrima Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura e di tanti scoppiettanti sonetti sarcastici, capassiani, e di innumerevoli compostissime odi e laudi e canzonette sacre, insinuarono, come per incanto, anche nel nostro cervello, il verme che frullava nella mente dell’arciprete di sant’Andrea Apostolo.
Quale verme?
Nientemeno che il verme dell’insorgenza anti-francese dei contadini diciamo suessolani avvenuta nel gennaio del 1799. Di essa non si era mai saputo granché. Tutti ne favoleggiavano: tutti si lasciavano incantare dalle scarse notizie delle altrettanto scarse cronache del tempo, e ripetevano (suggestionati vieppiù dai versi del Guadagnino: il preside Marco Mauro in testa) che essa fosse stata una gloriosa pagina della storia della valle suessolana. Non vi era mai stato verso, però, che qualcuno fosse riuscito a saperne di più. Era sempre mancata la prova che quell’insorgenza avesse avuto luogo per davvero!…
Leggemmo e rileggemmo l’intera cantica del parroco-poeta e ci fu chiaro il perché del ghiribizzo di don Ciccio… E calatici nella sostanza di esso, ci convincemmo che i versi messi in bocca al Valletta avessero a che spartire, proprio con lui, proprio con il Valletta, tutto e niente… Il Valletta, quei versi, non li aveva mai scritti, ma il Valletta, perbacco !, li aveva pensati…Eccome!
E dunque?
Dunque al nostro don Ciccio serviva soltanto un complice… Egli aveva letto e riletto, chissà quante volte, l’operetta del parroco di Talanico e ne era rimasto sempre più curiosamente affascinato, oltre che stordito: non tanto dalla quasi urticante epicità della forma, quanto dall’assai inquietante sostanza.
Ogni cosa sapeva, don Ciccio, della valle di Suessola: dalla più antica alla più recente… Ma – ecco tutto – sfiorato anch’egli dal sospetto che proprio ad Arienzo (proprio a pochi passi da dove stavamo ormai contemplando scorze di fave, toste cotiche di ventresche e boccali vuoti) i civili della città murata e i cafoni del vastissimo agro si fossero levati in armi – scoppettelle, roncole, vanghe, pertiche e cincorenzie: tutte qui, le armi… – e avessero combattuto da prodi, nel tragico Novantanove, contro gl’invasori francesi del generale Championnet, e li avessero sonoramente battuti: sfiorato anch’egli da questo sospetto, don Ciccio si era scocciato di dover correre pure lui appresso a si dice e si racconta!
Sicché aveva deciso di dedicarsi alle opportune ricerche.
E, bontà sua, si era messo in testa di coinvolgere anche noi…
Aveva avuto luogo, sì o no?, l’insorgenza dei cafoni suessolani di cui gli storici che si erano occupati della cosiddetta Repubblica Partenopea avevano scritto sempre tanto poco quanto niente, e, peggio, anche in modo contraddittorio?… E per davvero il Valletta (punctum dolens) vi aveva avuto il ruolo del furente incitatore ?
E l’insorgenza, ove mai, in qual giorno era avvenuta ?
Quanti giorni prima che, per il volta-faccia dei camorristi di Michele ’o pazzo, i galli vanificassero la resistenza eroica dei lazzari e irrompessero in una Napoli che, divisa fra traditori e traditi, era ormai in piena guerra civile, era immersa in un terrore e in un caos di proporzioni allucinanti?
Serviva proprio un complice, al nostro carissimo don Ciccio: un curiosone testardo come lui che prendesse atto della causante sostanza dei versi di don Guadagnino, e indagasse, insieme con lui. E noi, con irreprensibile caparbietà, indagammo.
Spulciammo meticolosamente i diari del Marinelli e del De Nicola, e le opere del Cuoco, del Colletta, del Croce, dei soliti vagoncini a rimorchio che in ogni epoca e dappertutto sanno soltanto copiare e giurare in verba magistri. E ci ingolfammo, prima che altrove, nella Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, nelle solite vaghissime tracce, note a don Ciccio e a noi. E prendemmo atto di bel nuovo, ricordavamo bene, che l’insorgenza, a detta del solitamente fazioso generale, fosse avvenuta alle Forche Caudine, gli insorti avessero massacrato circa quattrocento francesi, ma non fossero riusciti affatto a cavarsela a buon mercato: i francesi, dapprima in difficoltà, avessero poi rimontato, e ne avessero uccisi in assai maggior numero…
Ma come e dove verificare se il grosso fatto fosse avvenuto e si fosse concluso non con la disfatta dei cafoni, come il Colletta voleva far credere, ma con il loro trionfo assoluto, con quello eternato in versi dal Guadagnino: con la liberazione di borghi e ville dall’incubo dei saccheggiatori, degli estorsori, degli assassini, degli stupratori, dei mariuoli finanche di polli e di prigiotti?