Sembravano tempi lontani da questi, nei palazzi della città i dissensi su rosso e nero, bianco e rosa, si ricomponevano nella schiuma di un caffè o in un battito di mano sulla spalla. Eppure Angelo Manna non trovò qualcuno disposto a presentare, magari in un’unica smilza pagina, i versi di “Care paisane”. Lo chiese a molte teste pensanti, ebbe risposte del tipo: No, è roba che scotta, Ma a chi vuò fa, passà nu guajo?
La prefazione se la scrisse da solo, sorridendo perché “la scoperta della viltà dei pezzi grossi dell’intellettualismo è sempre un divertimento”.
Angelo sarà contento, m’illudo, a leggere oggi la mia firma sotto  queste righe che non sono riparatrici – giacché, come lui, considero quasi un insulto la parola intellettuali – ma dettate da affettuoso rimpianto. Almeno dimostrano che allora, in quello strambo posto chiamato Il Mattino, si poteva essere amici pur essendo diversi; ci si rispettava e la carriera – il profitto del talento – non era obbligo sociale.
Angelo l’ho conosciuto in via Chiatamone nella seconda metà degli anni sessanta, imponente, gli occhi cerchiati di blu e un vestito scuro con panciotto: l’austerità nel vestire quasi a mascherare il ribollio anti-conformista di dentro.
Veniva dalla cronaca nera, l’aveva fatta “come uno che abbia una brutta malattia e si illude che passerà“. Scriveva speciale, da inviato, e inviato fu. Ma, combattendo i foderi e restando appese le sciabole, lo passarono all’anonimato delle province; s’informava della salute e dei raccolti di corrispondenti da borghi sperduti del Sud, ascoltarlo al telefono era uno spasso. Infine approdò alla compilazione, ossia le stanze vetrate in cui si incollavano le notizie di agenzia dall’Italia e dall’ estero. Fingeva di fottersene del lavoro, eppure fu tra i pochi a rinunciare a forbici e colla: leggeva svelto i dispacci e batteva articoli da inviato con firme forestiere.
Gli debbo una delle prime soddisfazioni professionali (è storia privata) e lezioni di dignità impartite con fare da masaniello. Un miscuglio: burbero e tenero, antico e nuovo, capo , nato e restio al comando, conservatore e nemico di ogni conservatoria. Era cordiale con gli umili e mai disposto a fare inchini a squadra ai potenti.
Nella pausa del lavoro impugnava la penna, pensava e scriveva per sé.  Altri poeti cercavano rime” amore-cuore, lui scelse quelle in azzo: ne ricavò versi ardenti raccolti in L’inferno della poesia napoletana, edito nel 1974 da Adriano Gallina, il compianto fondatore della stessa casa editrice che ora stampa questo libro. Era tanto bravo, tanto padrone della lingua, che non riesci a distinguere i suoi versi da quelli di Ferdinando Russo e di altri grandi impegnati nell’ estremo sesso della poesia.
Ma perché fecero tanta paura ai maestrini del pensiero i 26 sonetti, i 524 versi di Care paisane? Perché erano ribelli, perché raccontavano un Sud sbranato da secoli di potere avido e da qualche decennio di civiltà industriale; lontano come una stella dalle cartoline di campagne e di mare. Perché sfruculiavano i falsi profeti dell’ ufficialità culturale, scavando senza paura di sporcarsi le mani nelle viscere della città.
Soprattutto perché andavano a rileggere la nostra storia e invitavano a ribellarsi a una condanna ingiusta. Se Raffaele Viviani aveva scritto ce avimmo sullevà cu ‘e braccia noste, Angelo era ancora più sanguigno: Piecure!, è fernuta Il’èvera! Nell’ultimo sonetto gridava: Cchiù peggio ‘e comme state nun c’è peggio.
La rabbia civile lo portava a estremizzare il suo pensiero. Ce l’aveva con l’Italia vampira, con il Nord che aveva succhiato il sangue meridionale attraverso il filtro delle cemmenere, il suo modo di definire le cattedrali nel deserto. Qualcuno potrebbe pensare a un leghismo prima maniera, ma sarebbe un insulto alla sua intelligenza: sta fetumma ‘e Romma non è la stessa cosa di Roma ladrona e il federalismo di Angelo, per usare una parola alla moda, era tutto l’opposto di quello di Bossi: si muoveva in nome della solidarietà e non dell’egoismo, di una storia vera e di una geografia compatta di dolore, non di una maxi-regione opulenta come la Padania, inventata dal nulla abbinando l’inabbinabile.
I “Care Paisane” di Angelo non hanno mai avuto partite Iva: sono e bbefurche mpurpate sott’ ‘o sole comm’ ‘e spogne; scarrecature ‘e puorto, zappaterra diventati emigranti, sciumme in mezzo al mare.
Tutte vittime di grieche e rrumane, e bbarbare e strogote … e  spagnuole e bburbune e ggiacubine e ppò burbune n’ata vota ancora, prima ancora dell’Unità portata da Calibbardo.
Idea di destra? Angelo stesso lo credette, quando si mise a fare politica. Ma era una destra tutta sua, che smuoveva pure concetti tradizionalmente di sinistra. Forse non è un caso che nel sito Internet della fondazione a lui intitolata, sotto la faccia aperta e la scheda biografica, ci sia scritto “Difendete il popolo palestinese“. In fondo dignità e uguaglianza e difesa dei deboli dovrebbero essere parole comuni, non rare.
Da il Mattino Angelo Manna se ne andò con un coda giudiziaria.
Emigrò a Canale 21 e inventò il talk show fatto da solo in una trasmissione intitolata Il Tormentone. Il successo fu enorme. Un giorno andammo a prendere il caffè in piazza dei Martiri e a ogni tot passi si doveva bloccare per firmare un autografo, imbarazzato.
Sull’onda della popolarità, nel 1983 si presentò alle elezioni nelle liste del Movimento Sociale e fu eletto deputato con quasi novantamila voti. Poteva essere l’avvio di una bella carriera politica, ma a Roma bisognava essere furbi e adorare il potere, lui non era furbo e il potere lo aborriva. Conobbe l’amarezza di battaglie perdenti e solitarie all’interno delle sue stesse fila. Allora si appartò nella natia Acerra per scrivere altri libri controcorrente, talvolta editi a proprie spese. Restò con il Sud, il dialetto, la passione per la sfida. Se n’è andato presto, il caro paisano Angelo, purtroppo in tempo per vedere che perfino la memoria della storia, da cui era posseduto, si dissolveva in un caos globale.
Questo libro serve a ricordarlo.